(Av)venture per startup

Investimenti fantastici e dove trovarli
Avventure per startup

Chi ben comincia…

In principio era il verbo: startuppare. E il verbo era presso San Jose (Silicon Valley).

Da lì, nel non troppo lontano 1972, si è diffuso un modo di fare startup che è stato esportato in tutto il mondo e che ha preso diverse forme, in base anche alla geografia di approdo. Anche perché quella di partenza si è rivelata a oggi irreplicabile in qualsiasi altra parte del globo terracqueo (ma questa è un’altra storia).

A prescindere dal luogo in cui si avvia una startup, però, esiste una costante: il bisogno di liquidità per avviare un’impresa. E in questo, se non si hanno mezzi propri, gli investitori giocano un ruolo cruciale. Di seguito la mia personalissima percezione della situazione italiana (e di mezza Europa).

“Show me the money”

Il funding dedicato alle startup genera solitamente esternalità positive ed è destinato a farlo sempre di più in futuro. Tra gli attori fondamentali nel sostentamento e sviluppo delle startup troviamo i fondi di Venture Capital o anche di Corporate Venture Capital (creati all’interno di incumbent industriali). Non me ne vogliano i mitici Family, Friends & Fools, che saluto con estremo affetto, ma proseguendo nella lettura capirete perché non siete voi i protagonisti del post (ma vi vogliamo comunque un gran bene!).

Tornando ai Venture (o VC) dunque, ci riferiamo ad essi sovente come soggetti imprescindibili nel percorso di crescita ed evoluzione di una startup. Quando entrano loro, mettono spesso ordine e disciplina dove mancanti o non sufficienti (praticamente sempre). Spesso è importante avere un VC in cap table anche solo per dimostrare agli investitori che verranno nei successivi round che la situazione è già sotto controllo.

I Venture sono tutti uguali?

No, ma non voglio nemmeno entrare in un’arena che personalmente non conosco in dettaglio. Quello che so, tuttavia, è che ho spesso incontrato VC con modello di business e conseguente mindset ben preciso, che riassumo grezzamente in questo modo:

  • Di solito non fanno (very) early stage. Poiché si trovano startup ancora poco solide e senza traction, con conseguente (molto) alta probabilità di perdere quanto investito;
  • Solo startup in cui il founder ha il controllo dell’iniziativa. Anche se non si tratta di early stage, il fattore umano rimane un driver imprescindibile per scalare, quindi il Venture vuole vedere track record e full commitment;
  • Solo startup in cui c’è un percorso disruptive di crescita. Il VC, dato che investe in iniziative ad alto rischio, ha necessità di bilanciare il fondo: sa che la grandissima parte delle startup in cui investe non gli permetterà di avere ritorni adeguati, quindi dovrà trovare almeno un’iniziativa che cresca a tal punto da consentirgli di realizzare un ipotetico multiplo a due cifre, che gli permetta di coprire gli ipotetici altri “fallimenti” o under performer.

Ovviamente nel citare solo i punti sovrastanti ne escludo tantissimi altri, che però non sono funzionali al prosieguo del ragionamento. Se qualcuno però volesse approfondire le logiche del mondo Venture Capital, consiglio vivamente di seguire, tra gli altri, il blog Silicon Valley Dojo (a cura dei founder di Lombard Street) e di studiare bene la guida pratica di Seraf (realizzata da Launchpad Venture Group).

Un Venture diverso è possibile

Fin qui ci siamo? I VC sono soggetti essenziali, che investono capitale ad alto rischio per supportare iniziative innovative, portate avanti da visionari che spesso hanno tutto da dimostrare e che devono crescere di almeno il 200% anno su anno, possibilmente mollando tutto a un certo punto e trasferendosi in Silicon Valley.

D’altronde, per chi vuole realizzare ritorni sicuri, ci son sempre Bond (occhio al rischio cambio) e Btp, ma agli LPs chissà perché questi non piacciono 🙂

Dunque i Venture cercano di arginare il rischio dandosi una disciplina e ponendosi i paletti elencati in precedenza. Siamo sicuri però che questo percorso sia quello ideale per tutte le startup? I founder, se non sono Elon Musk, sono da scartare? Le startup, se non diventano Uber, sono zombie? Agli LP che investono interessa veramente sapere che c’è un unicorno nel fondo? Davvero dobbiamo arrenderci come sistema al fatto che sia necessario drogare di liquidità le startup, leggendo di funding milionari e valutazioni miliardarie, per poi scoprire che anche molti unicorni finiscono al cimitero?

Io e tutta Startup Bakery pensiamo proprio di no. Soprattutto non nel sistema economico italiano, esteso a buona parte del vecchio continente. Per questo abbiamo impostato col nostro Startup Studio (o Venture Builder) un percorso differente, non esclusivamente finanziario, bensì a trazione industriale.

Attenzione, questo non significa che il nostro percorso Venture sia migliore o peggiore di quello classico, ma solamente che è un percorso alternativo, al quale molti potenziali investitori, founder ed aziende possono guardare con curiosità e financo con favore.

E quindi, cosa cambia?

Di base, cambia che le startup (i sottostanti) le creiamo e finanziamo noi nello startup studio. Da zero. Ma senza reinventare ogni volta la ruota. Questo ci consente di aumentare ciclicamente la qualità, la solidità e la sostenibilità media delle startup gemmate e di non avere di conseguenza bisogno di andare affannosamente a caccia di unicorni in giro per il mondo per realizzare multipli interessanti.

Noi, come Venture Builder, iniettiamo 100k in pre-seed e 200k in seed in tutte le startup che gemmiamo. Tanto? Poco? Non lo so. A noi oggi pare il giusto e, inoltre, in Italia ci piacerebbe avere più compagnia, perché per definizione lo Startup Studio agisce su volumi contenuti (in rapporto al capitale raccolto). Quello che ci aspettiamo però è di cedere le startup gemmate a partner industriali selezionati e a valori medi compresi tra i 6 e i 20 milioni di euro (rispettivamente a 2 e a 5 anni).

Così facendo:

  • Per gli investitori si generano multipli potenziali a 2 cifre con valori di capitalizzazione delle startup di almeno un ordine di grandezza inferiori a quelli necessari alle startup “tradizionali”;
  • Si offre all’industria la possibilità di acquisire (quando non creare) innovazione a valori contenuti e di non risentire di costi nascosti tipici dell’integrazione delle startup (ci si conosce sin dall’inizio);
  • Si offre alla startup un percorso di accelerazione concreto, patrocinato da uno o più partner industriali (in possesso del corretto mindset) e guidato da un co-founder che nel frattempo ha appreso a pieno e on the job le logiche del fare impresa.

Quindi, in sintesi, crediamo in quello in cui investiamo, perché lo facciamo con le nostre mani e perché il target di ogni startup ci crede, eseguendo prima pre-ordini e poi abbonandosi ai nostri SaaS, validando in questo modo ciascuna business idea e creando la tanto agognata traction.

Ma è poi nel series A che i nodi vengono al pettine.

Series A: chi mi passa la scala?

Arrivati a questo punto, un VC comincia a guardare la startup (possibilmente con lo sguardo scettico e col sopracciglio alzato di un veterano spartano che attende dalla cima di una rupe di vedere quale recluta spunterà al suo cospetto). Se decide di entrare in cap table, solitamente esige che la stessa, anche dopo il suo ingresso, sia ancora nelle mani dei founder, i quali, tramite i soldi raccolti nel series A, devono scalare (la rupe serviva solo a riscaldarsi) e affrontare i successivi round B, C, D, E…chi più ne ha più ne metta.

Però, guardando meglio la cap table, c’è un tipo di co-founder che il VC raramente vede: lo Startup Studio! Quest’ultimo sembra aver convinto il proprio socio a fondare in minoranza o comunque a fare un percorso ben differente da quello standard. Inoltre questo nuovo percorso, in cui la startup viene ceduta ad un partner industriale a valori nell’intorno dei 15-20 milioni, non consentono al Venture tradizionale di realizzare i multipli target. Non viene rispettata nemmeno una delle 3 condizioni elencate come importanti per un VC.

E dunque come si può procedere oltre?

Alla ricerca del multiplo perduto

Come nelle migliori storie, è proprio quando tutto sembra perduto che avviene il colpo di scena che ribalta le sorti dei protagonisti. I due Venture (Capitalist e Builder) sono destinati a incontrarsi!

Un VC potrebbe cominciare verificando le altre iniziative nel paniere dello Startup Studio. Eh sì, perché se è vero che la singola iniziativa non assomiglia nemmeno lontanamente a un unicorno spuntato, allargando lo sguardo alle altre startup dello Startup Studio ci si accorge che sono tutte create con le medesime, solide, fondamenta e che quindi hanno tutte una più alta probabilità di generare exit, seppur più contenute rispetto allo “standard”.

I due tipi di Venture (Capital e Builder) devono conoscersi e incontrarsi sempre di più, per trovare un terreno comune, magari cominciando da qui:

  • Lo Startup Studio è un garante della qualità delle startup, poiché consente investimenti (anche) early stage più sereni;
  • Lo Startup Studio è un co-founder che, oltre a gemmare startup, gemma imprenditori. In Startup Bakery l’azienda la mettiamo in piedi noi. Sarebbe dunque strano che un co-founder terzo ne possedesse la maggioranza. Quello che avviene è che, nel giro di massimo 12 mesi, il co-founder scelto diventa pienamente in grado di guidare l’iniziativa, ma sempre con noi al fianco, anche dopo una exit parziale!
  • Lo Startup Studio e il co-founder cedono quote a un partner industriale selezionato, che garantisce la crescita della startup e non il suo soffocamento. Ormai, anche in Italia, le aziende hanno ben compreso che non conviene “inglobare” bensì “includere”, lasciando ampia indipendenza alla startup (magari creata in un programma di Corporate Venture Building).

Ci sono ovviamente molte altre differenze nel fare startup all’interno di uno startup studio, ma per i VC più temerari, che sono arrivati a leggere sino qui, ho una sola parola: grazie!

In conclusione

Per una volta l’Italia può sfruttare la sua trazione industriale per fare innovazione, evitando che iniziative nate qui siano costrette a emigrare, seguendo il meccanismo perverso di funding classico e portando infine valore (leggi PIL) altrove.

Il Venture nostrano (auspicabilmente europeo) ha la possibilità di diventare davvero “Sistema”: diverso, alternativo, ma altrettanto efficace rispetto a quello nato a San Jose, nel non troppo lontano 1972.

Noi ci siamo.

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